Seun Kuti: la voce dell’Africa libera
Seun Kuty e Spiff Onyuku: simboli di riscatto, speranza, consapevolezza
La Nigeria protagonista al Largo Venue di Roma
Roma, 30 Ottobre 2024
Aspettando Seun Kuti, entro a Largo Venue ancora vuoto ed è subito Fellini. Le sfere strobo specchiate e migliaia di tessere colorate di un mosaico di luci sulle pareti. Nello schermo in cinemascope della mente prende vita la scena della mattina dopo la fine della festa di carnevale ne “I Vitelloni”. Qui invece la festa sta per iniziare, ma c’è ancora il silenzio, increspato solo dalla tromba di Miles Davis di Sanctuary, Feio e Pharaoh’s Dance. L’assenza, il vuoto diventano orgasmo. Poi finisce tutto. Lenta e inesorabile, la gente inizia a prendere possesso dello spazio.
Passa mezz’ora e si ricomincia. Spiff Onyuku prende possesso anche lui, ma del palco. Nigeriano, nasce nella regione del delta del Niger. È una zona con circa quaranta gruppi etnici diversi. È anche un’area ricca di petrolio la cui attività estrattiva ha avuto conseguenze ambientali devastanti e dove la lotta per accaparrarsi le ricchezze legate all’oro nero ha portato a scontri sanguinosi tra le tribù. Iniziati nel 1990, perdurano ancora oggi; decine di migliaia di morti, militarizzazione della regione, ai quali si aggiungono incidenti ed esplosioni negli oleodotti, fuoriuscite di greggio e cosi via.
Spiff è un ragazzo di 27 anni con un sogno: la musica. Più forte di qualsiasi incubo. Quello del suo viaggio ad esempio. Parte e attraversa il Mediterraneo, destinazione Italia. Non racconta quello che ha visto e subìto, non serve. Lo leggi nel suo sorriso aperto, nei lampi di gioia negli occhi, nel modo con cui ti ringrazia di essere lì ad ascoltarlo. Negli applausi regalati in risposta a quelli ricevuti. Oggi Spiff Onyuku è un’eccellenza del corso di Musica Elettronica del Conservatorio Piccinni di Bari. Ed è con un brano elettronico sperimentale che apre il suo set sul palco del Venue; difficile da ascoltare, complesso. C’è la guerra, c’è il dolore, ci sono voci narranti e corali africani che entrano. Una domanda diventa un mantra che non trova risposta “Chi ha fatto piangere il bambino?”. Anche troppo “elevata” e difficile per essere un’apertura, ma forse è giusto così.
I brani che seguono invece sono sue canzoni afrobeat e afropop. Suoni curati, timbro vocale è pieno e possente. Interessanti gli incastri ritmici e percussivi. A un certo punto fa capolino una chitarra “alla Santana”. Ci invita a cantare con lui il ritornello dell’ultima canzone. Il testo è facile, una sola parola, italiana: “allegria”. Nel pubblico ha amiche e amici nigeriani, con i quali si scusa, per aver parlato quasi sempre e solo in italiano. Quando va a recuperare l’inglese gli scappa e un “soprattutto” al posto di “specially”. Sta bene Spiff in Italia, io ne sono più che felice.
Tocca a Seun Kuti. Per la terza volta in pochi anni mi concedo il piacere di ritrovarmi al suo cospetto. L’ultima volta è stata al termine della seconda giornata dell’edizione romana del Womad. Stasera è fresco di nuova uscita discografica: “Heavier Yet (Lays The Crownless Head)”, prodotto da Lenny Kravitz e da Sodi Marciszewer storico collaboratore del padre e uscito per l’etichetta indipendente milanese Record Kicks. Con lui gli Egypt 80, storica formazione che accompagnava rinnovata nei membri, con una prestigiosa eccezione. L’unico componente ad aver condiviso il palco con il padre Fela è il carismatico Kunle Justice, al basso. Escludendo le vocalist è una band a trazione arabo/francofona: tromba e sax baritono francesi, batteria e sax tenori dalla Martinica, chitarrista algerino.
Seun Kuti si fa attendere e lascia loro il compito di scaldare il pubblico. La partenza è micidiale e martellante. Un treno funky, con ritmica inarrestabile, base per inserimenti più jazzati di tromba e sax, che introduce le due coriste in costume tradizionale nigeriano, abili vocalist e più che generose nel twerking. la sua entrata è accolta dal boato del pubblico.
Il primo pezzo è un omaggio al padre Fela. ‘Suffering and Smiling’, trance ipnotica con ritmica di basso, batteria e chitarra, segue un’onda continua e senza fine. Non è un concerto ma una celebrazione. Seun Kuti domina il palco con movenze e cadenze da predicatore, scandendo e lanciando le parole del padre che raccontano della sofferenza della popolazione nigeriana, aggrappata disperatamente alle false illusioni delle religioni, con un sorriso di rassegnazione e non di gioia.
La restante setlist del concerto è occupata quasi interamente dai brani dell’ultimo disco.
‘Dey’ scorre tra sonorità caraibiche su groove funky, poliritmie, melodie afro cantate a voce piena. Non indimenticabili i suoi interventi al piano elettrico, molto più centrati quelli al sax alto. Le parti strumentali si prendono tutto il loro tempo, mentre i seicento presenti iniziamo a sciogliere i loro corpi, chi in controllo, chi posseduto dal Kumpo. E in mezzo a questa celebrazione a risaltare di più è l’imperturbabilità olimpica di Kunle Justice, che suona il suo basso senza fare una piega.
C’è tanta, tantissima Africa, alla quale Seun Kuti restituisce voce. Racconta di sentirsi un artista rivoluzionario e parla di potere. Dell’unico che riconosce, quello delle persone. Il potere di “essere per”. Sono qui per voi e voi siete qui per me. E per me siete le persone migliori di Roma”. Sono le parole che lanciano ‘T.O.P.’, invettiva contro la smania di scalata al successo fatta di botta e risposta tra l’artista nigeriano e le due vocalist ancheggianti, il cui gesto che ne accompagna gli interventi diventa di tutto il pubblico.
Africa nei ritmi, che esalta un pubblico trascinato da ritmi subsahariani, proiettando corpi e anime in paradisi tribali colinergici, illuminati dagli inserti della sezione fiati, che aggiungono lucentezza. È quella del continente africano, di colori, suoni, sapori al di là del Mediterraneo e e del Sahara, fino alla grande pianura del delta del Niger e alle prime foreste equatoriali. La lucentezza dello sguardo e dell’aura di Seun Kuti.
Strumentali senza freni e scatenati, ogni musicista si prende il suo spazio, giganteggia il solo di sax baritono ed è incredibile il lavoro ritmico di Anis Benhallack alla chitarra. L’energia si espande e coinvolge in una bolla ma… a me arriva un pelo meno delle volte precedenti. Forse il punto appena sopraelevato dal quale ho assistito al concerto, forse l’aspettativa troppo alta, o una comprensibile stanchezza dell’artista dopo uno spettacolo molto fisico. O magari l’aver colto nel figlio minore del “Black President” un quasi impercettibile eccesso di atteggiamenti da show, compresa l’abituale camicia che vola via, con un livello di spontaneità minore rispetto alle sue precedenti esibizioni. Più probabilmente la nota stonata del non rientrare sul palco dopo il bis. Quel palco, dal quale Spiff Onyuku si è conquistato con tutto sé stesso e dal quale non sarebbe sceso mai.