Roma Jazz Festival 2024 I Bill Evans & The VansBand All Stars
Jazz, funk e non solo nella serata dell’Auditorium di Roma
Bill Evans e la sua superband incantano la Sinopoli
Roma, 11 Novembre 2024
In un podio delle persone che non soffrono l’emozione dell’avere un grande nome accanto, Bill Evans si candida ad occupare una delle piazze. Aveva 22 anni quando fu chiamato alla corte di Miles Davis. Ne aveva solo due di più, il 25 e 26 aprile 1982, quando suonò con lui in un indimenticabile (per i presenti) concerto romano, al mai troppo rimpianto Teatro Tenda Pianeta di Via Cristoforo Colombo. Il concerto è integralmente rintracciabile e ascoltabile sul web
Quella sera, oltre a Evans, accompagnavano il “Principe delle Tenebre” altri promettenti ragazzini: Mike Stern alla chitarra, Marcus Miller al contrabbasso, Al Foster alla batteria, Mino Cinelu alle percussioni. Un articolo dell’epoca racconta di musicisti giovani e sconosciuti, che “forse non diventeranno celebri come i loro predecessori, ma che non li fanno rimpiangere”. Comprensibile la prudenza nel lanciarsi in lodi sperticate, ma qualcuno di questi nomi famoso lo è diventato.
Fermiamoci a Bill Evans stavolta. Basti ricordare la sua presenza nella Mahavishnu Orchestra di Johm McLaughlin e le collaborazioni con Harbie Hancock, Gil Evans, Mick Jagger, Andy Summers, per capire che la strada da lui percorsa è stata costellata da successi e riconoscimenti fuori scala.
Quella stessa strada che stasera lo riporta a Roma, gemma tra gemme nel cartellone del Roma Jazz Festival 2024 e che fa tappa stasera nella sala Sinopoli dell’auditorium Parco della Musica. Accanto a sé, ha voluto un parterre de roi che lo accompagnasse nella serata e che formasse insieme a lui la VansBand All Stars.
Gary Husband, batterista e pianista, compositore, produttore, arrangiatore, stasera ai tasti bianchi e neri. Carriera solista trentennale, sedici anni anch’egli al fianco di John McLaughlin e collaborazioni parallele con Level42, Billy Cobham, Gary Moore, Allan Holdsworth, Jack Bruce, Chick Corea, Jeff Beck. Mi fermo qui, ma potrei continuare per altri due paragrafi. Alla batteria Keith Carlock, già con Toto, Steely Dan, Sting e John Mayer. Chiude il quartetto al basso elettrico, un Fodera a sei corde, con una rosa rossa sulla paletta a coprire la farfalla e a catturare l’occhio, Felix Pastorius. Sì, avete letto bene, figlio di cotanto padre, già con David Byrne e Santana.
Infine Bill Evans, bandana a mo’ di fascetta sulla fronte, a ricordarmi un altro grande Evans, che di nome faceva Gil. Due sax con sé, un soprano e un tenore, lucenti, protagonisti, presenti e imponenti. Squillanti come il suo modo di suonare e stare sul palco; estroverso, coinvolgente, aperto e proiettato verso il pubblico. Professionalità ai massimi livelli che colgo nel suo parlare in italiano laddove possibile e nel farlo molto lentamente in modo da riuscire a farsi capire da tutti nell’idioma anglosassone d’oltreoceano
Per la sua musica la parola chiave è quella più in voga nel mondo del jazz moderno: contaminazione; con il soul, con il funky, con il country. Perfino con il pop, quando lo stesso Evans siede al pianoforte per interpretare una struggente ballad. Inevitabile per me chiedermi se e quando un jazzista di casa nostra potrà mai mettersi a cantare un brano country-pop. unica cover della serata. I restanti brani sono estratti dal suo ultimo lavoro “Who I Am”.
I suoi compagni di avventura si inseriscono alla perfezione nei pezzi che, pur con approccio jazzistico hanno struttura legata alla forma canzone. Gli spazi per le improvvisazioni presenti, ma non ridondanti e sempre funzionali agli equilibri del brano. Visti e ascoltati da fuori non si ha mai la sensazione di assistere a una gara di bravura tra fenomeni, che invece si sostengono vicendevolmente. L’eleganza e l’intensità di suono del piano elettrico di Gary Husband si compenetra al meglio con l’energia, la ricchezza timbrica, la fantasia della batteria di Keith Carlock. Ciliegina sulla torta, il basso inarrestabile di Felix Pastorius, che si carica di lirismo e poesia nelle improvvisazioni solistiche sul registro acuto
Si colgono anche rimandi al mondo argentino, nella leggerezza felpata dello scandire ritmico del piano, accompagnato dal basso, in ‘Mica Boom’, canzone che Bill Evans ha dedicato al suo gatto. Spazio vaporoso e fantasmatico, brano sornione e gioioso, carico di intensità di sentimento. Solo di synth finale costruito con un suono di fisarmonica e che ne ravviva il colore “piazzolliano”. Preludio di una performance alla batteria di Keith Carlock, della durata di quasi sette minuti. Un solo di batteria d’altri tempi; la sua Gretsch con due rullanti e due tom fa venir giù l’intero Auditorium.
Poi soul e funk, tanto, tantissimo, mai troppo. Cambi di ritmo e break in cui si aprono spazi per il dialogo tra i musicisti. Momenti in cui è impossibile star fermi sulle poltrone dell’Auditorium si alternano a pause improvvise, in cui il jazz più fumoso e introspettivo la fa da padrone. Le armonizzazioni del solo di Pastorius che cita il tradizionale ‘Amazing Grace’, lanciano Keith Carlock che libera tutta la sua morbidezza e potenza. Sarà suggestione, ma balugina davanti a me l’immagine di Omar Hakim, batterista di Sting, nel suo concerto romano del 1985.
Bill Evans ci saluta con un brano dedicato ai giovanissimi musicisti cubani con i quali ha suonato in un viaggio nei primi mesi del 2020. Brano d’atmosfera, in cui il suo sax soprano vola altissimo, svettante sul tappeto di armonie costruito da Pastorius. Ma non si fa pregare per rientrare e regalarci due bis, l’ultimo dei quali è un ricordo di Miles Davis e un omaggio a Roma. ‘Jean-Pierre’ è lo stesso brano che concluse quel concerto dell’aprile 1982. Una Roma molto diversa dall’attuale, che, agli occhi di un musicista dal cuore aperto, mantiene l’eterna magia e rimane “una delle città che più amo nel mondo”.
Finisce così, ma mi resta un interrogativo senza risposta. Come si fa a ringiovanire in Italia il pubblico dei concerti jazz?