Nova Rock Festival 2024 | Day 01 | Green Day
Diario di bordo: data astrale giovedì 13 giugno 2024, pianeta Nova Rock, galassia Pannonia Field, Austria.
Potrebbe tranquillamente essere questo l’inizio di un nuovo viaggio nello spazio da parte di Oca Nera Rock. Un viaggio come quello dell’Enterprise, utile a determinare la distanza siderale tra quello che si aspetta un comune fruitore di festival italiani e quello che in realtà vive una volta arrivato a destinazione, oltre i confini di casa.
Nel calendario dei festival in Europa e in Italia, il mese di giugno è ricco di eventi. Sicuramente il Nova Rock alle porte di Vienna è quello più atteso da centinaia di migliaia di giovani (e non) che amano non solo la musica ma anche l’esperienza comunitaria del camping. Sì, perché la vera ricchezza di questo festival è il popolo del Novarock, cui importa relativamente poco della programmazione. La musica non è in secondo piano ma al Pannonia Field non si viene per seguire il concerto del proprio artista preferito. Il Nova Rock è un’esperienza e lo dimostra il fatto che se i live sono organizzati dal giovedì alla domenica sera, già dal lunedì l’area camping è popolata da caravan e tende.
Parlando dei nomi a cartellone, carne sul fuoco qui c’è n’è sempre stata e anche stavolta ce n’è per tutti i gusti. L’area concerti è organizzata con cinque palchi, la cui programmazione per lo più lascia poco spazio alla sovrapposizione – Blue Stage, Red Stage, Red Bull Stage, Volume Signing Tent e Addicted To Rock Tent.
Primo giorno, tocca agli inglesi Hot Milk inaugurare il palco blu e dare il via ad una giornata lunghissima. Nonostante siano in giro da una quasi una decina d’anni, per me è stata la prima volta che li ho sentiti. Il duo inglese porta l’attitudine emo a un livello di potenza molto apprezzabile. Hanno solo 25 minuti a disposizione e lo stesso sapore del mosto selvatico: ancora aspro ma bollente. I pezzi sono ben interpretati, gli Hot Milk emanano carisma e sono piaciuti molto al pubblico, già presente in buon numero.
I canadesi Silverstein salgono sul palco portando uno schiaffo post-hardcore ed un set improntato a spaziare su tutta la discografia. Partono da ‘Bankrupt’ e chiudono con l’iconica ‘Smile in your sleep’, facendo esplodere i presenti con le intramontabili ‘Smashed into pieces’ e ‘My heroine’. La voce di Shane Told esce potente, così come il basso di Hamilton ma, anche loro, a causa della durata dello slot devono abbandonare il palco dopo mezz’ora. Gran merito e complimenti.
Sono le 14.30, si apre il palco gemello – quello rosso.
Molta è la curiosità sulle Hanabie che arrivano sul palco di corsa facendo intuire sin da subito una grande personalità. La metal band giapponese ha rischiato di essere vista come un clone delle più note Babymetal. Questa in fondo era l’aspettativa di chi non segue molto la scena j-metal ma la realtà è stata ben diversa. Le Hanabie sono un concentrato nipponico di metalcore abbinato ad un’estetica kawaii multicolore, che ne conferisce riconoscibilità. Divertono tanto ma, soprattutto, sono ottime musiciste. Presenti e scatenate, il palco sembra enorme e sicuramente questa impressione è ingigantita anche a causa delle loro figure minute. Musicalmente suonano con grande capacità e riescono ad emergere come una band dall’identità ben definita smentendo di fatto ogni termine di paragone con le Babymetal.
Si cambia di nuovo colore del palco e si torna al Blue Stage, dove i Donots festeggiano i 30 anni di carriera non solo regalando un’ottima prova ma confermando il perché i Green Day li abbiano scelti come supporter per il loro tour. I tedeschi sono un’istituzione in patria ma non solo negli ambienti underground. Volendo fare un paragone, i Donots sono come i nostrani Punkreas: seguiti e sostenuti dagli amanti del genere, sono però conosciuti da tutti. Il gruppo dei fratelli Knollmannt sfodera tutta la propria verve punk rock e sicuramente ha gioco facile in casa. Indubbia è la voglia di far saltare e cantare il pubblico che, sempre più numeroso, non si fa di certo pregare. Molti pezzi sono in tedesco, tra essi spicca la cover della bellissima ‘We’re not gonna take it’ dei Twisted Sisters.
A seguire salgono gli americani The Interrupters con il loro ska punk allegro e veloce accompagnato da una voce roca ed esplosiva che percuote le membra anche a chi non è avvezzo al ballo. La prova vocale di Aimee Interrupter è notevole ed il tono accogliente delizia e fa muovere le gambe per tutti i 50 minuti a loro disposizione. Ottima la cover di ‘Bad guy’ di Billie Eilish ma è con ‘She got arrested’, ‘Rised by Wolves’ e ‘She’s got Kerosene’ (i cavalli di battaglia della band) che i fan esplodono.
Particolarità di un evento che si divide più palchi è che purtroppo alcuni concerti si sovrappongono. Anche se aumenta l’offerta musicale, capita che due band interessanti anche se diametralmente opposte si trovino in contemporanea. È questo il caso dei Dogstar e dei Kerry King. I Dogstar vedono al basso la star cinematografica Keanue Reeves; i Kerry King sono la band dell’ex chitarrista degli Slayer (e ne porta il nome). Le premesse son diverse e ampiamente rispettate. I Dogstar non sono la band di Keanu Reeves e i Kerry King non portano a spasso Kerry King.
Con molta onestà, i Dogstar suonano perché in formazione c’è Reeves che, tuttavia, non fa assolutamente nulla per ostentarlo. Sale veloce sul palco, un saluto rapido appena accennato e si mette a suonare il basso. Suona bene, nulla di eccessivo ma sono i brani stessi a non richiederlo: sembra di assistere allo zio che partecipa al compleanno del nipote e gli dedica delle canzoni. Lo ammetto senza cattiveria, con grande onestà: sono presente più per vederlo che per sentirlo.
Kerry King invece ha il fuoco che gli divampa dentro, fuori e letteralmente tutt’attorno. Oltre agli effetti pirotecnici, la band ha incendiato la platea con un set devastante con volumi improponibili ed impensabilmente alti e potenti, mettendo a dura prova la resistenza dell’impianto audio e dei nostri timpani. Le aspettative qui erano alte: verificare se Kerry King sarebbe riuscito a ricreare la magia dei bei vecchi tempi senza scimmiottare sé stesso.
Per il suo progetto, KK ha deciso di avvalersi del fido batterista Paul Bishop (ex Slayer) ma soprattutto della voce di Mark Osegueda (Death Angel) e della chitarra di Phil Demmel (ex Machine Head) con il basso devastante di Kyle Sanders. Sulla carta dovrebbe essere un buon mix ma il risultato è oltremodo sconvolgente. KK porta on stage buona parte del suo album di debutto, arricchendo il set con delle pietre miliari degli Slayer. È la sua ‘Where I reign’ ad aprire le danze facendo subito esplodere il pubblico del palco rosso. I pezzi sono veloci e aggressivi, la voce di Osegueda è un mix perfetto di violenza e pulizia che trasmette un senso di timore e pericolo. Ben diverso da Araya, più libero probabilmente anche dal fatto di non dover suonare il basso. Il risultato? Da pelle d’oca.
L’attenzione si sposta veloce verso il palco blu, dove ci aspettano i Jane’s Addiction. I losangelini sono in perfetta forma e non si risparmiano in nessun modo. La band suona insieme praticamente da sempre ed il frontman, Perry Farrell, è l’ideatore di uno dei più grandi festival mondiali, il Lollapalooza. La varietà degli stili proposti è il loro vessillo, spaziando appunto con astuta indifferenza da un genere all’altro alternando funk e rock metal. Dieci sono i pezzi proposti, un caleidoscopio di stili vocali e ritmici.
La chitarra di Dave Navarro è magnificamente supportata dal basso pulsante di Eric Avery, che non perde un colpo e dà il giusto spazio ai vocalismi di Farrell. All’opener ‘Up the Beach’ seguono ‘Whores’ ed altri successi, tra cui un’eterea ‘Mountain Song’ e ‘Ocean Size’. Farrell è un’entità impalpabile, che vestita di nero racconta le sue difficoltà nella vita e delle diversità che ci rendono unici. Le espone cercando di trasmettere il potere dell’essere unici senza essere sbagliati. Per la conclusiva ‘Chip Away’ il palco si smonta e vengono portati tre tom della batteria di Perkins, suonati contemporaneamente da tutti i membri della band lasciando allo sciamanico Farrell elevare il canto sul palco blu e abbracciare i presenti.
Restiamo al palco blu, tocca ai canadesi Billy Talent. Personalmente non comprendo l’amore e il grande seguito per la band perché non li reputo musicalmente interessanti ma è innegabile l’appeal che ha sui presenti, che hanno riempito per la quasi totalità la capienza del prato fronte palco. Il loro è oggettivamente uno show ben suonato e incredibilmente partecipato da tutti i presenti. Benjamin Kowalewicz è molto bravo e tutta la band si presenta in grande forma, anche quando per problemi tecnici si è dovuti ripartire nell’esecuzione di ‘Red Flag’: il mood non è mai calato e la partecipazione è rimasta sempre attiva e attenta. Succede di non essere nelle stesse corde degli artisti ma bisogna riconoscerne l’impegno e i Billy Talent, sicuramente, hanno onorato il loro set.
Sul palco concorrente avrebbe dovuto suonare Corey Taylor ma all’ultimo momento ha dovuto arrendersi ad una condizione di salute precaria che lo ha colpito inaspettatamente. Lo slot non è rimasto scoperto perché all’ultimo secondo hanno suonato i Bloodsucking Zombies From Outer Space, di cui non si hanno notizie certe. Posso dire che hanno ovviamente un nome lunghissimo e che il pubblico ha risposto molto bene alla loro performance, senza nemmeno protestare troppo per il replacement improvvisato.
I Green Day sono un gruppo che ha bisogno non di una canzone di ingresso, non di due ma addirittura ben tre. Nell’ordine, la loro attesa inizia con ‘Bohemian Rhapsody’ dei Queen seguita da ‘Blitzkrieg Bop’ ed un mash-up della marcia imperiale di Star Wars con ‘We will rock you’, con il costume del coniglio che balla e intrattiene il pubblico.
‘The American Dream Is Killing Me’ è il proclama di inizio concerto che Billie Joe Armstrong usa per sparare la prima bomba sul pubblico: i Green Day entrano in scena veloci, sparati da un’esplosione sul palco. Si vede che sono in forma smagliante, si vede che sono dei ragazzini in età adulta. Armstrong, con una pettinatura che lo fa sembrare Bruno Mars con i capelli ossigenati male, strappa più di un sorriso ma questo poco ci importa. Siamo qui per la musica e, ancor più, per il messaggio che veicola a chi la ascolta.
Con ‘Burnout’ e l’immancabile ‘Basket Case’ si palesa sul pubblico un aeroplano gonfiabile, proprio quello in copertina su “Dookie”. I brani in scaletta sono noti a tutti e non c’è un momento di vuoto nella vigorosa energia che i Green Day sfoderano ad ogni pezzo. In sequenza ‘Welcome to Paradise’, ‘She’, ‘In the end’ prima di saltare tutti con ‘When I come around’ e ‘F.O.D.’. Immancabile il coinvolgimento del pubblico da parte di Armstrong, che durante ‘Kknow your enemy’ cerca tra il pubblico qualcuno che salga sul palco a cantare con lui. La sorte vuole che tocchi ad una ragazza di nome Laura, che cantando a pieni polmoni rende fieri tutti noi che vorremmo essere al suo posto.
I Green Day amano interagire coi fan, cercano il contatto con loro e sanno intrattenere il pubblico. ‘American Idiot’ è un inno generazionale sempre attuale, come oramai lo sono la gran parte dei loro successi. Si toccano corde sensibili quando suonano in sequenza ‘Wake me up when September ends’ e ‘Homecoming’, ma basta poco per tornare al pogo delirante su ‘Minority’. La conclusiva ‘Good Riddance (time of your life)’ mette la ciliegina sulla torta della giornata. Anche stavolta una fan è chiamata a suonare dal pubblico, anche stavolta una fan tornerà a casa con la chitarra che le verrà regalata: i Green Day sono anche questo.
Una giornata campale, la prima del Novarock. Intensa, piene di sorprese e conferme. Le luci non si spengono nella notte, adesso ci sono gli eventi disco fin quasi all’alba, sia nell’area concerti che nell’immenso camping circostante. Io vi saluto, per oggi va bene così.