Apparat live a Roma: un tappeto musicale ipnotico
La pioggia e il pesante sciopero dei mezzi pubblici non sono riusciti a fermare la folla che ha riempito l’Auditorium Parco della Musica a Roma per assistere alla seconda data italiana (la prima a Napoli, le altre due a Milano il 3 ottobre e Torino il 4 novembre) del “Soundtrack Tour” di Apparat.
Il giovane artista tedesco si è messo in mostra, negli ultimi anni, per aver composto molte colonne sonore per spettacoli teatrali e per film destinati al grande schermo (degno di nota il lavoro svolto per “Il giovane favoloso” con Elio Germano), che ha deciso di raccogliere in una sorta di potpourri in questo tour autunnale che lo porterà a girare l’Europa.
Nessuna location probabilmente si sarebbe rivelata più adatta per Apparat del palcoscenico disegnato da Renzo Piano per ospitare questo tipo di spettacolo.
Per un istante, appena preso posto, ho avuto l’impressione di essere in attesa non di Apparat, bensì di una intera orchestra: le rastrelliere disposte in ordine, gli sgabelli, i violini e i timpani; dopo una breve esibizione di un duo spalla del dj tedesco, i Prairie, si è entrati nel vivo dello spettacolo.
Quella che mi aspettavo fosse un’orchestra si è rivelato essere in realtà un gruppo di cinque persone, che appena entrate hanno subito acceso i loro laptop.
Con una certa dose di pregiudizio ho temuto si potesse trattare un tipo di esibizione basata sulle abilità informatiche, ma l’esibizione che ne è seguita mi ha smentito in un modo che non avrei immaginato.
Parlare delle singole tracce proposte qui da Apparat non ha molto senso se ci si trova di fronte a quello che evidentemente è stato pensato come un concept più vicino all’esperienza della musica classica che non a quello di una semplice serata di musica elettronica.
Fin dai primi minuti è risultato lampante come Apparat abbia voluto dare un maggior peso emozionale alla serata, abbinando di volta in volta un caleidoscopico gioco di immagini che si snodavano sullo sfondo, tutte estremamente astratte e metafisiche, tuttavia fortemente connesse al momento musicale che andavano incontrando.
Come un contemporaneo son et lumiere abbiamo assistito a galassie che scorrevano rapide, che velocemente mutavano in pietre levigate per poi diventare laser rossi che tagliavano il fondo alle spalle degli artisti come sanguinose ferite.
Il tappeto musicale ha reso ipnotico il tutto, affidando allo spettatore la scelta su dove far ricadere la propria attenzione: se sulle luci e ombre (in parte realizzate sul momento grazie ad un proiettore presente sul palco) o se, invece, osservare gli artisti che, concentratissimi, si esibivano alternando l’uso di una vasta gamma di strumenti, mostrando doti musicali decisamente fuori dal comune.
La sola pecca attribuibile allo spettacolo è stata la forse eccessiva ripetitività del format, che alla lunga è risultata pesante se non alienante (ma chissà che non fosse anche questa una delle emozioni che intendesse suscitare l’artista tedesco) che in qualche modo ha reso molto più difficile riprendere il contatto con la realtà una volta fuori dall’Auditorium.
La leggera pioggia che iniziava a scendere sulla capitale una volta usciti dallo spettacolo di Apparat ha amplificato ogni sensazione provata fino a poco prima.